Inizia da molto lontano il racconto del Sig. Giuseppe Paolo

UNA STORIA RICCA DI ANEDDOTI, CURIOSITÀ, EMOZIONI…

Dove nasce l’oro bianco: in principio erano LE PAGLIARE…

“La mozzarella, di produzione tipicamente campana, nello specifico della zona Mazzone (presso Cancello Arnone, Nocelleto), nasce come prodotto privilegiato, di nicchia, per le persone facoltose, benestanti. Lo stesso re Ferdinando di Borbone vantava delle aziende di bufale a Carditello.

Un tempo vi erano le cosiddette Pagliare, nome che deriva, molto probabilmente, dalla struttura delle abitazioni di allora, ricoperte di paglia, poi nel tempo modificate; una sorta di masserie in cui i pagliar, i proprietari terrieri di quelle zone, allevavano bufale. Le pagliare erano zone umide e paludose, ideali per le bufale, animali amanti dell’acqua: lì pascolavano in libertà e, quasi come ippopotami, si immergevano nelle zone del fiume Volturno nuotando per chilometri, anche in immersione. Le bufale, cresciute in maniera selvatica, erano lasciate libere durante il giorno e alle prime luci dell’alba rientravano per essere munte.

Allevare bufale, produrre latte e poi trasformarlo in mozzarella, era il mestiere più diffuso di allora in quelle zone: c’erano i cosiddetti muriniell, che controllavano e gestivano, spesso con modi brutali, il lavoro degli altri sottoposti; una sorta di lavoratori di fiducia alle dipendenze del proprietario terriero, solitamente di Napoli. Una volta munto, il latte veniva messo in tini e poi adagiato nelle fornaci di mattoni, con della legna sotto da ardere, per essere riscaldato; una volta pronto, veniva tirato su.”

Questa la procedura fino agli anni 30, prima che entrassero in scena le caldaie.

“Trasformato quindi in mozzarella, si attendeva che arrivasse il cosiddetto casigno per il trasporto, ma non vi erano strade, solo percorsi fangosi: in che modo dunque avveniva il trasporto? Con una sorta di slitta di legno, trainata da buoi o tori, che scivolava sul fango. Le cassette per il trasporto, le cosiddette sporte, erano di legno di castagno, sottile ma resistente. Anche a Maddaloni ne producevano, e la paglia che veniva usata per impagliare le sedie (tradizione maddalonese) veniva messa sul fondo di queste cassette.

Un secondo passaggio era quello con i cavalli che, alla fine della lunga traversata, arrivavano al mercato di Aversa, unica e ultima meta: Il trasportatore veniva pagato direttamente dal signore per la spedizione da pagliara a mercato. Questo era il suo unico guadagno. Durante la guerra e il dopoguerra, invece, molti dovettero ricorrere all’arte di arrangiarsi: trasportavano il latte e, una volta trovato un luogo in cui posizionarsi, lo cuocevano (quagliare) sul cosiddetto trieppedo (tre piedi) in ferro, cercando di guadagnare qualcosina dalla vendita sul posto.”

Noi SIAMO la mozzarella



Fino agli anni ‘30 il padre del Sig. Paolo non produceva mozzarelle, ma lavorava nelle grandi aziende. Poi, la svolta:

“Mio padre fu il primo ad avere l’intuizione di aprire una propria attività: pertanto il suo fu il primo caseificio nella provincia di Caserta, a Cancello Arnone (a Maddaloni ci trasferiremo fine anni ‘70, inizio ‘80), ma non era semplice reperire il latte perché i produttori erano pochi. Prima di allora, per alcuni anni, lavorò anche a Battipaglia, dove i caseifici, con macchinari più all’avanguardia, cominciavano a diffondersi poco alla volta: non vi era una manodopera specializzata nel fare la mozzarella, in quanto mestiere poco noto da quelle parti, e quindi i lavoratori provenienti dalle zone casertane erano tra i più richiesti, e ben pagati. Tra questi, mio padre.”

Di lì a poco, ci fu il boom dei caseifici, ma ovviamente non tutti ebbero fortuna e furono costretti a chiudere.

“Tutta la mia famiglia, da generazioni, ha sempre lavorato la mozzarella, anche prima dell’800. Fratelli e i nipoti hanno seguito le stesse orme ed ora vantano caseifici a Città di Castella, in Umbria, e lungo la domiziana.”

Fare la mozzarella è stata sempre una vita di sacrifici:

“Si iniziava al mattino prestissimo e si finiva a tarda ora, per seguire tutte le fasi e non sbagliare. Le mozzarelle erano pronte in serata. Il latte addensava intorno a mezzogiorno (in giornata, dunque, veniva quagliata), poi si toglieva il siero, parte acquosa giallina utilizzata per fare la ricotta, da non confondere con la caseina che quando bolle si stacca naturalmente.”

Il Sig. Paolo ricorda nostalgico:

“Oggi non è come allora; persino la pizza risente dell’evoluzione della mozzarella. Il sapore della pizza napoletana di un tempo, con la mozzarella di bufala invenduta dei caseifici, era qualcosa di diverso da oggi. Sono anni che non mangio più pizza, perché troppo legato ai sapori di un tempo, che non riesco a ritrovare.”

Ci regala poi qualche piccolo consiglio sulle tempistiche da adoperare per gustare al meglio la mozzarella o per utilizzarla in cucina su pizza o pasta al forno:

“La mozzarella non va mangiata calda, appena fatta: dovrebbe essere mangiata ore dopo, anche il giorno dopo; e se dobbiamo cucinarla è meglio metterla prima in frigo, strizzata del latte; a metà cottura è possibile farcire e completare.”

Il Sig. Paolo e i suoi fratelli, sin da bambini, sono stati abituati ad essere presenti durante il lavoro, a guardare, ad aiutare. L’intera famiglia, dal più piccino al più grande, collaborava alle fasi di produzione, e così è stato per i suoi figli: generazioni, una vita intera!

Ed è per questo che, con una sincera soddisfazione e grande riconoscenza per i suoi predecessori, il Sig. Paolo esclama: “Noi siamo la mozzarella.”

La svolta degli anni ‘50



Lo chiama il Boom della mozzarella, il Sig. Paolo, avvenuto intorno agli anni ’50, a seguito di due eventi: innanzitutto, lo sviluppo dei collegamenti stradali (domiziana) che, migliorando, agevolò trasporti e conoscenza del prodotto, permettendo una maggior produzione. Ma non solo:

“Quando qualcuno si ammalava, i medici, come già nei tempi addietro, consigliavano, quale fonte di nutrimento e proteine, una fettina di mozzarella: questa si produceva a pezzi come il pane, non a sfere, come oggi, per cui si tagliava a fette o a pezzi più grandi; la più piccola era di circa mezzo chilo, perché al di sotto di quel peso, a cottura, bruciavano a causa del sale.

La mozzarella era infatti un prodotto tipo baccalà, cioè molto salata: una volta prodotta, portata al mercato di Aversa e infine nei magazzini a Napoli, veniva immersa in acqua, e mai venduta in giornata perché troppo salata. Era fondamentale che scaricasse tutto il sale per ritornare alla forma iniziale: si gonfiava e poi, schiacciandola, ritornava come prima. Come una spugna. Oggi non è facile trovare un prodotto di un’elasticità simile, indice di buona manifattura.”

È un racconto che non si ferma, sempre ricco di dettagli e curiosità:

“La mozzarella poteva anche essere confezionata come regalo, sapete? In piccoli mazzetti, avvolta in alcune foglie chiamate goglie (giunco), una pianta facilmente reperibile nelle zone acquitrinose; questo perché la mozzarella era considerata un dono di valore da fare ad avvocati, medici, notai, in segno di gratitudine e riconoscenza per quelle che venivano chiamate prestazioni.

Un altro tipo di foglia aromatica era la mortella, che cresceva anch’essa nelle zone di mare, nei pressi delle pinete a Castel Volturno. Prima era tutto più genuino, naturale, non contaminato da pesticidi e agenti chimici… ora sarebbe impensabile.”

Dolci ricordi: il BURRIELLO



Già nell’800, la famiglia era solita preparare un dolce tipicamente invernale, da poter gustare solo fino a Pasqua, perché con i primi caldi non era più possibile farlo:

“Accadeva spesso che i signori che ricevevano la mozzarella regalassero dei dolci quali la cioccolata, i confetti, l’uva passa, i canditi, il cedro… tutti ingredienti che poi finivano, come una sorpresa, nel burriello. Cos’era? Un vero e proprio dolce di mozzarella.”

Sorridiamo e ascoltiamo incuriositi:

“Ricordo ogni passaggio della preparazione, perché per noi era una festa: l’ultima acqua che la mozzarella rilascia, quella più densa, in inverno diventava panna; all’interno, secondo un gusto personale, venivano inseriti e mescolati alcuni dei dolci elencati prima. Una volta stesa la pasta della mozzarella lavorata, veniva adagiata in un grande cucchiaio, precedentemente immerso in acqua bollente: per il caldo, la pasta prendeva la forma curva, permettendo così di farcirla con il composto dolce in panna; infine, si chiudeva pizzicando e si capovolgeva. Equivale, più o meno, alla figliata di oggi, ma in versione dolce. Ne andavamo ghiotti!”

Il Sig. Paolo, sorridente e un po’ nostalgico, ci confida che uno dei suoi desideri è proprio riproporre il burriello, per farlo conoscere ed apprezzare…e forse anche per ritornare un po’ bambino.

La MOZZARELLA? Come il BABÀ



Il Sig. Paolo non può non testare la sua mozzarella, ed è per questo che con fierezza ammette di mangiarla tutti i giorni, per essere certo di dare un eccellente prodotto al cliente:

“Deve soddisfare anzitutto me, perché se piace a me, piace anche al cliente, che ritorna contento. E deve essere buona anche il giorno dopo, mantenere quelle caratteristiche che mi fanno definire la mozzarella come il babà: morbida, soffice, filamentosa, saporita.”

Nessun trucco, è una questione di procedimento.

“Prima la mozzarella veniva lavorata un quarto d’ora, come il pane, e seguivano dei passaggi per creare e, al tempo stesso, mantenere la morbidezza: fondamentale era farla asciugare per riprendere la forza, la consistenza, detta da noi in gergo nervo. Molte cose sono cambiate da allora, soprattutto i materiali utilizzati: le mozzarelle appena fatte venivano immerse nelle vasche di legno, dette salature; poi, subentrando l’acciaio, sono arrivati i problemi, perché non riuscivo più a fare le mozzarelle. Sembra assurdo ma è così: ho dovuto imparare nuovamente, perché il metodo fino a quel momento adoperato, cambiando i macchinari e il materiale dei componenti, non dava più lo stesso risultato.”

Un vero e proprio ostacolo da superare:

“Sì, c’è voluto qualche anno per comprendere come fare per ottenere gli stessi risultati di prima, per adattarsi. Era il prodotto stesso a rispondere diversamente a contatto con i nuovi materiali. Ogni cambiamento comporta un nuovo equilibrio, è un continuo adeguarsi ai tempi che corrono: bisogna capire come arrivarci, facendo delle prove. Oggi le macchine danno un notevole aiuto, ma ciò che conta è che il processo resti invariato: tradizione e innovazione insieme.”

Anche l’acqua è importante per avere una mozzarella eccellente:

“Un tempo si prendeva l’acqua direttamente alla fonte: un’acqua arrammata, contenente rame, un po' frizzante, tipica delle nostre zone. Ovviamente col tempo non fu più possibile e dovemmo comprare depuratori per l’acqua, che utilizziamo tutt’ora. A quei tempi ci si poteva fidare dell’ambiente: addirittura, raccontava mio nonno, non erano in pochi a bere l’acqua direttamente dall’impronta dello zoccolo di bufala impresso nel terreno; così come non era fatto insolito bere il latte appena munto, senza timore di contaminazioni, sporcizia, e senza alcun problema di digeribilità. Oggi è consigliabile bollire perfino il latte confezionato, nonostante i controlli. È tutto diverso, è vero, ma si cerca sempre un modo per ritrovare la genuinità e il sapore quanto più vicini a quelli di una volta. Prima, ad esempio, l’innesto (il siero) non si usava, era superfluo, ma oggi non puoi farne a meno: è come se servisse quel quid in più per trovare la giusta formula e mantenere così gli equilibri inalterati.”

Si percepisce l’amore e il rispetto che ha per questo lavoro: cambierebbe qualcosa?

“Gli orari di produzione, non per pigrizia ma per logica: le mozzarelle andrebbero fatte a tarda ora, nel pomeriggio, ma oggigiorno si fanno al mattino presto. Perché? Per accontentare il cliente che vuole mangiare la mozzarella fresca per ora di pranzo, come il pane. Lavorare a tarda notte o all’alba non mi piace e non ha senso, perché secondo me la mozzarella va mangiata, gustata, almeno tredici ore dopo, perché si deve anche un po' assestare. Ovviamente cerchiamo di andare incontro alle esigenze dei clienti.”

Maddaloni: l’azienda di famiglia e l’allevamento delle bufale



“Alla fine degli anni ‘70 inizio ‘80 siamo venuti a Maddaloni, in una zona più periferica rispetto ad oggi, presso il famoso Bar del Monaco. Lì abbiamo fatto il caseificio, poi l’azienda con le bufale, e infine ci siamo stanziati a Cancello. Oggi abbiamo 115 bufale, ma iniziammo con 18 animali piccoli e 22 un po’ più grandi; poi ne acquistammo altri 9: arrivati a un numero di 230 capi di bestiame, non consumando tutto il latte, capimmo che la soluzione migliore era vendere, ed evitare così uno spreco.”

Anche questo fa parte di esperienza.

“La selezione e l’alimentazione degli animali è fondamentale per avere un prodotto di qualità, perché anche le bufale non sono più quelle di una volta, robuste e forti, sempre in movimento nei lunghi tragitti da un posto all’altro.

Tantomeno mangiano come una volta nutrendosi esclusivamente di erba: la mozzarella di un tempo, infatti, tendeva a un colore verdastro, mentre oggi ha un colore paglierino, perché mangiano fieno, cereali ed è tutto controllato. Se prima una bufala poteva pascolare liberamente e nutrirsi di erba genuina, oggi non è più consigliabile dato l’inquinamento delle acque e dei terreni, ed è per questo che la bufala pascola in spazi recintati e controllati, mangiando cibo selezionato.”

Antonio, il figlio del Sig. Paolo, ci porta a visitare l’azienda e ci racconta che, un tempo, anche gli animali facevano parte della famiglia, chiamati addirittura per nome: erano mansueti e si lasciavano mungere, ma se qualche cucciolo fosse nato morto, la madre non avrebbe dato più latte. Oggi è diverso:

“Appena una bufala partorisce, il vitellino le viene tolto per abituarlo al biberon, ma la mamma conserva sempre un po' di latte da parte per il figlio, una sorta di riserva esclusiva: inutile insistere se è destinato a lui.”

Oramai le bufale sono semplici matricole, numeri di produzione, sebbene qualcuna un po' più anziana conserva ancora il nome: Campione, ad esempio, che nonostante l’età e i tanti parti continua a produrre un bel pò di latte. E i tori? Iesc sole, Passatore, Zerbio, Arricchisc ‘o padron, Ombre ‘e nisciun: nomi particolari, che fanno certamente sorridere, ma utili per memorizzare le caratteristiche fisiche o caratteriali dell’animale.”

L’azienda ha cominciato a prendere vita nel 2004:

“Prima c’era solo il caseificio, ma l’idea di un allevamento di bufale tutto nostro era l’altro grande sogno di mio padre: voleva produrre il latte, non comprarlo, e quindi era necessario pensare in grande. Inizialmente noi figli fummo titubanti, ma lui, per convincerci a fare questo ulteriore passo, utilizzava una metafora molto efficace, ma altrettanto colorita: la mattina è merda, la sera sono soldi.”

Non fu certo semplice:

“Io, i miei zii, i miei cugini, tutti noi produciamo mozzarelle. Abbiamo iniziato da zero, imparando anzitutto a gestire l’economia, e poi le problematiche che possono insorgere quando si ha a che fare con animali; abbiamo fatto errori, o meglio, esperienza. Le prime volte, soprattutto a seguito di alcuni parti, ci furono frequenti casi di prolasso, e la causa poteva risiedere o in un fatto alimentare, o nella selezione sbagliata di chi aveva venduto il capo. Fortunatamente, le bufale non sempre morivano: a volte recuperavano, altre volte non rendevano più, e per qualcuna, purtroppo, non ci fu altro destino se non il macello. Risolvemmo cambiando alimentazione e diminuendo le dosi alle gestanti, proprio grazie all’esperienza diretta, e ad oggi, episodi del genere sono assai rari.”

La ricerca dell’unicità: studio, perfezionamento, obiettivi.



“Io ho un mio ideale di bufala, e punto a quello: ognuno ha i propri criteri di selezione, gusti, standard, ma per me allevare significa rendere vera e concreta la propria idea di prodotto/ animale con le quattro zampe ben piantate a terra. A me piace molto selezionare, studiare le caratteristiche dell’animale, scegliere, notare le differenze: una bufala bella, secondo me, deve essere in carne ma non grossa, avere belle corna, una giusta attaccatura di mammelle, avere una zoccolatura a piombo come si deve, e deve fare la giusta quantità di latte. Ciò nonostante, nulla può essere dato per certo o scontato: si procede per tentativi, ma il più delle volte lo studio attento e coscienzioso dà i frutti sperati e tante soddisfazioni.”

Antonio spera di ottenere, attraverso una precisa selezione di capi di bestiame, una discendenza perfetta, che possa produrre un latte dal sapore ben distinguibile, secondo il suo personale punto di vista:

“Un latte e dunque una mozzarella di bufala unica, tutta mia, riconoscibile al primo morso. Pertanto, l’alimentazione diventa fattore di primaria importanza per conferire uno specifico sapore al latte. Si procede per prove, cambiando fieno, selezionando il trinciato di mais, equilibrandone le dosi, ed evitando possibilmente prodotti troppo industriali. Per abbattere i costi ed evitare brutte sorprese dovute all’inquinamento e all’uso di additivi chimici, cerchiamo di coltivare nei nostri campi ciò che serve; quindi, una buona parte è nostra diretta produzione. Anche per le farine, seppure miscelate, preferiamo non acquistare prodotti tubettati (tipo cilindretti di pellet), per essere sicuri della provenienza e della qualità degli ingredienti.”

Non solo bufale, ovviamente:

“Anche i tori sono sottoposti ad accurata selezione per avere una buona e proficua discendenza: sappiamo quanto latte produceva la nonna, la mamma; è una selezione che si fa sia da linea paterna che materna, comprando il seme migliore per la fecondazione artificiale.”

È consigliabile, secondo l’esperienza di Antonio, acquistare tori a fine carriera, per così dire, in quanto significa che hanno dimostrato nel tempo di essere ottimi esemplari da allevamento e quindi possono trasmettere buone qualità, tra cui la mansuetudine, fondamentale:

“Mio padre fece l’errore di acquistarne uno giovane, di circa 18 mesi; una volta portato qui, in mezzo agli altri animali, cominciò a dare segni di irrequietezza fino a diventare violento, e così i suoi figli. Ciò accade perché il toro è per natura territoriale e se non può placare i suoi giovani istinti, diventa furioso mettendo a rischio l’intero bestiame. Bisogna stare attenti. Una bufala partorisce all’incirca ogni due anni e la gestazione dura poco meno di 11 mesi: cerchiamo quindi di gestire accoppiamenti e produzione di latte secondo un tempo calcolato. Non sempre decidiamo di mettere il toro nel recinto delle bufale in calore per favorire l’accoppiamento; a volte teniamo il bestiame separato per preparare le bufale alla fecondazione artificiale, comprando dei semi sessati, quindi scegliendo esclusivamente femmine; come quest’anno, in cui puntiamo a creare un’altra linea di sangue, così da avere quattro ceppi entro il 2026. Questo per alternare la discendenza tra maschi e femmine.”

Sogni per il futuro?

“Abbiamo tante idee e molti progetti da realizzare in breve tempo. Per adesso ciò che più desideriamo è dare un nuovo volto alla mozzarella, una nuova funzione, un’alternativa ecco; allontanare le persone dal concetto che la mozzarella sia soltanto il pasto pronto e veloce del venerdì, per chi non ha tempo di cucinare o torna tardi da lavoro. La mozzarella in realtà può essere gustata in tante altre occasioni e in svariati modi. Dobbiamo osare, andare oltre, avvicinare soprattutto i più giovani, solitamente più inclini alle novità.”

Un cambio di immagine…

“Vorrei dare al nostro caseificio una veste più contemporanea: sogno un luogo gastronomico incentrato sul prodotto della tradizione nostrana rinnovato; un posto in cui poter trovare la mozzarella in molteplici e nuove varianti, da consumare anche al momento, con praticità, quasi come fosse una pizza o un panino burger per cui fare la fila.”

Tradizione e innovazione camminano di pari passo:

“Bisogna considerare i tempi moderni, il contesto in cui siamo calati, e stare al passo. Sono convinto che un prodotto buono, unico, genuino e italiano, come la mozzarella di bufala, debba essere rivisitato, ampliato, per regalare al cliente/consumatore un nuovo punto di vista. Se poi la cosa decolla, vi è un’ulteriore idea da addizionare, quella di macellare le bufale, perché la carne di bufala è ottima, morbidissima e con poco colesterolo. Basti pensare che le bufale sono allevate per vita e quindi mangiano prodotti da vita; diversamente, i manzi sono allevati per macello e quindi mangiano prodotti per essere ingrassati. I francesi, ad esempio, sono ghiotti della carne di bufala, ma noi italiani non siamo abituati a consumarne, considerando la bufala per il solo latte.”

Fiducioso nel futuro, Antonio ci saluta con un grande sorriso:

“Se c’è una cosa che ho imparato dall’esperienza tramandatami da mio nonno e poi da mio padre, è che non bisogna mai arrendersi, né temere di fallire: lavorare sodo, cercare nuovi equilibri, adattarsi senza perdere la propria identità. Questa è la vera vittoria. Questo è il sogno che continueremo a realizzare.”

A cura di Luisa Aiello